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Raziel Perin

03 ottobre 2020–18 ottobre 2020

Raziel Perin, A Tale of Tamarindo
Ricercatore associato: Simao Amista

Il progetto è parte di The Recovery Plan:
http://www.museomaga.it/eventi/381/The_Recovery_Plan

Dal 3 al 18 Ottobre 2020
Attraverso la sua pratica - sincretismo di disegni, simbolica voodoo, sculture organiche con innesti digitali e tecniche installative miste - Raziel Perin approfondisce e si riappropria di alcuni rituali legati alle credenze popolari e al misticismo della sua terra di nascita, Santo Domingo, e di echi e influenze che giungono filtrati sino a lui in Italia nelle maglie della diaspora della sua famiglia. Il lavoro di ricerca per A Tale of Tamarindo origina nello studio della storia di Santo Domingo e dalla presa di coscienza di alcune contraddizioni radicate nella sua società (così come in Italia) come il rifiuto dell’eredità nera e la demonizzazione delle pratiche legate a culti popolari nati nelle piantagioni.

OPERE IN MOSTRA:

Mami, 2020. Manioca, ametista, ferro battuto sabbiato.
Nella cultura Yoruba, ed in molte altre culture afrodiasporiche americane e non, le divinità femminili che proteggono e sostengono gli uomini e le donne vengono chiamate Yabas, da Iya: madre. Nel ventre matrilineare di molte afriche si è annidata per millenni una conoscenza antica. Le Iyami sono le temute e venerate madri ancestrali. Iyalorisa sono le donne al comando degli Ile Axé, i templi sacri delle religioni di matrice africana in Brasile. Iya, madre, è come chiunque si rivolge ad una donna più grande, che può non averti partorito, ma che rispettando e portando avanti le tradizioni si prende cura della comunità come lo farebbe con un figlio, ed ogni giorno partorisce il futuro. Le divinità femminili incarnano ogni aspetto della femminilità: impeto, saggezza, procreazione, sensualità, abbondanza, coraggio e leggerezza. Le donne e gli uomini che a loro rendono culto, onorano e rispettano ogni aspetto a loro legato. Mami Wata, il Vodun che tiene il serpente sulle spalle è tra le più venerate del west Africa, e come Yemoja (dallo yoruba, la madre i cui figli sono pesci), ha seguito la sua gente nella rotta infame della schiavitù; grazie a loro, i figli e le figlie umani sono rimasti aggrappati alla vita ed hanno trovato il modo di ricostruirne un’altra al di là della Calunga Grande. Perché come Iya li hanno protetti. Perché nel ventre delle donne, come una pietra preziosa, è custodito il segreto della vita.

Verja, columna, 2020. Ferro battuto trattato.
Come il fuoco forgia il ferro, alcuni simboli possono forgiare legami con le divinità, possono creare ponti tra materiale ed immateriale. Possono dare un’identità al divino. In molte culture tradizionali africane e afrodiasporiche, si usano simboli per identificare Vodun o Òrìṣà, Loa o entità spirituali di vario tipo, come nell’Umbanda o nella Kimbanda brasiliane. I Vevé haitiani sono simboli che vengono tracciati durante i rituali, sono simboli che identificano i Loa a cui fanno riferimento, sono simboli magici, simboli sacri, sono il linguaggio con cui il serviteur comunica con le sue divinità. Il ferro è un elemento legato ad un Loa in particolare: Ogun Ferraile. Questa divinità è stata importantissima per la rivoluzione haitiana, è importante per ogni rivoluzione, personale o di comunità, politica o sociale. Artistica.

Un Sueño, 2020. Carta di cotone fritta, lightbox.
Il sogno può essere uno stato dell’anima. Spesso, in molte tradizioni africane, si dice che nel sogno il proprio spirito può far ritorno al proprio villaggio, alla propria città, a casa. Nel sogno gli spiriti e le divinità possono dare messaggi, suggerire scelte, fugare dubbi. Dopo certi rituali, essersi bagnati corpo e testa con certe erbe ed aver mangiato certi cibi, il Babalorixà, il Babalawo, l’Hounon, la Mambo o la Iyalorixà suggeriscono di prestare molta attenzione al sogno della notte che verrà, si è aperta una porta, si deve accogliere l’invitato.Il sogno parla attraverso il suono, la sensazione, l’immagine; alleato perfetto di una cultura orale che comunica con ogni mondo al quale apparteniamo. Spesso è stato, attraverso il sogno che le vittime della tratta schiavista hanno fatto ritorno a casa, scaldando il cuore dei propri figli e figlie, mariti, mogli, padri e madri. Fratelli e sorelle. Nel sogno, molto spesso il nostro Petit Bon Ange, come dicono ad Haiti, o il nostro Orì, come dicono in Yorubaland ed in tutte le sue diaspore, ci comunicano cose che nella vita di tutti i giorni non riusciamo ad afferrare.
Il sogno è un modo per vedere ad occhi chiusi.

Shelter, Symbols of protection, 2020. Tamarindo, USB drive, setole, pigmento.
Le sculture rituali africane custodiscono una conoscenza, leggibile solo da chi ne comprende la grammatica non verbale, evidente solo per chi sa leggere nei simboli e scorge l’invisibile. Le sculture che gli occidentali chiamarono, intravedendone solo la superficie, “feticci”, sono complessi significati scolpiti nel legno da mani che hanno appreso movimenti che migliaia di altre mani prima di loro avevano compiuto. La rappresentazione del divino, del nascosto, dell’immateriale. Questi oggetti sono custodi di una sapienza quindi, una chiavetta usb filosofico/spirituale consultabile solo da chi ne rispetta la tradizione e l’etica, da chi ne conosce i principi e ne segue i precetti. A loro vengono fatte offerte, queste sculture non sono la divinità, come un occhio non attento ha pensato in passato, ma sono “un’antenna”, un tramite tra l’Orun e l’Aiyé, tra il materiale e l’immateriale. Le tradizioni e le filosofie afrocentriche sono ben ancorate al passato ma sono rivolte al futuro, sapendosi muovere nel tempo e nello spazio, perché sono trasmesse dalle lingue di uomini che vivono il presente, e non incise su pietre immobili. Ogun, dio del ferro e dell’innovazione è ora legato alla tecnologia, perché gli déi africani non  osservano la loro gente distanti, da un mitico passato, ma camminano al suo fianco, precedendola di qualche passo.

Testi di Simao Amista